Art. 18, precariato, occupazione giovanile. Si tratta di argomenti che in queste settimane hanno riempito le pagine dei giornali. Poco spazio, però, è stato dedicato al pensiero delle Piccole e Medie Imprese.
Dal punto di vista di Unionmeccanica Confapi, che riunisce circa 40.000 imprese con 450.000 addetti, il punto di partenza del ragionamento su questo tema è una constatazione.
Ci si è molto spesi sui principi di civiltà inalienabili arrivando a radicalizzazioni ideologiche, senza tener conto di quanto il contenuto di questa norma esprima semplicità ed ovvietà giuridica: “L’inefficacia del licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo”, da cui discende il divieto prevalente del licenziamento discriminatorio e per giusta causa/giustificato motivo soggettivo.
Cerchiamo di analizzare obiettivamente il tema. Mentre non si pongono problemi interpretativi sul licenziamento discriminatorio talmente ovvia risulterebbe la prevaricazione dei diritti sanciti per legge, la questione si complica quando la motivazione del licenziamento poggia sulla giusta causa/giustificato motivo soggettivo. I problemi qui si pongono prima di tutto nell’adempiere all’iter contrattuale previsto per poter accedere al licenziamento, poi per le conseguenze derivanti da un possibile iter giudiziario che non consente certezze nè in termini di tempistica di sentenza (cause di lavoro che durano anni), nè in termini di giudizio (sentenze soggettive che tendenzialmente tutelano il lavoratore), nè in termini economici (reintegro sul posto di lavoro, riconoscimento risarcimento del danno).
Se questa è la situazione, è importante anche evidenziare che il rapporto datore di lavoro-dipendente assume un approccio relazionale ben diverso tra un contesto di grande impresa e uno di piccola/media. Nelle PMI i dipendenti non sono semplici numeri di matricola ma hanno ben precisi nomi e cognomi. Spesso tra datore di lavoro e dipendente si intreccia un rapporto personale nell’ambito del quale, se emergono momentanee difficoltà familiari o economiche, non si indugia a trovare soluzioni per alleviare il disagio, intervenendo al di fuori dei rigidi canoni di un semplice rapporto di lavoro.
Ciò sulla base di una dato di fondo. Il dipendente delle PMI è un patrimonio dell’azienda e difficilmente viene estromesso se non per gravi motivi, inadempienze, assenteismi ingiustificati, difficoltà a rapportarsi con i colleghi.
Anzi, quando il rapporto di fiducia tra imprenditore e dipendente nella piccola impresa viene meno, il vivere quotidiano fianco a fianco anche con gli stessi colleghi dipendenti diviene difficilmente gestibile e non può che creare inefficienze operative antieconomiche. L’incertezza del giudizio in caso di ricorso al licenziamento, la conseguenza di un pesante riconoscimento economico, il rischio di un reintegro, inducono poi le nostre aziende a non superare le fatidiche soglie dei 15 o 50 addetti.
Per capire meglio, basta pensare che se in un’azienda con 20 dipendenti, 2 di essi sono portatori di inefficienze o creano problemi relazionali, i medesimi rappresentano una riduzione del 10% della capacità produttiva.
Tenendo conto di queste condizioni, sarebbe provocatoriamente interessante se nell’ambito della riforma in materia del mercato del lavoro, si introducesse il principio della “reciprocità” prevedendo tra le norme anche le “dimissioni per giusta causa”.
Quante volte le nostre imprese hanno formato giovani investendo in denaro e mezzi con risultati economici negativi e al momento di raccoglierne i benefici vengono abbandonate per qualche decina di euro in più in busta paga? Quante volte abbiamo formato personale commerciale che senza motivazioni specifiche passa alla concorrenza? Chi ha provato portare in causa il dipendente sa bene quanto sia difficile ottenere il riconoscimento del danno ed allora se risarcimento deve esserci nel caso di licenziamento, altrettanto ci sia da parte del lavoratore dimissionario a favore dell’azienda in assenza di “dimissioni per giusta causa”.
Infine, molto si discute sul fatto che non sia l’art. 18 a limitare la crescita delle imprese. Teniamo conto che lo Statuto dei Lavoratori è nato ormai da più di 40 anni, in un’epoca in cui la realtà industriale italiana era composta da grandi complessi produttivi ed elevati numeri di dipendenti con la tendenza ad internalizzare il completo processo produttivo.
Oggi, la situazione è completamente ribaltata, i grandi complessi sono in forte diminuzione, esternalizzano i cicli produttivi e delocalizzano le proprie sedi, il ridimensionamento del personale è continuo ed il poco rimasto è frequentemente assoggettato agli ammortizzatori sociali con percorsi finali orientati alla precarietà.
La realtà industriale odierna ci dice che il 98% delle imprese Italiane è individuabile nelle PMI con livelli occupazionali tra 1 e 50 addetti. È doveroso a questo punto porsi una domanda.
Vogliamo fare un atto di fiducia alzando l’asticella della licenziabilità sino ai 100 addetti, anche solo transitoriamente, adeguandoci alla nuova realtà economica produttiva, monitorando se effettivamente le nostre PMI si strutturano e crescono rispetto alla fatidica soglia dei 15 e 50 dipendenti?
Così facendo oltretutto verrebbe meno l’abuso dei contratti a tempo determinato e Co.Co.Pro., mentre le aziende che oggi rinunciano a commesse per non superare i limiti occupazionali non esiterebbero ad espandersi.
Piero Arduini
Presidente Nazionale Unionmeccanica Confapi

Per contattare la redazione di Innovareweb :
Via Spadolini 7, 20141 – Milano
Tel. +39 02 864105