Cosa hanno in comune la TAV, Scanzano Jonico e il recente progetto per lo sviluppo dell’energia nucleare in Italia? Stiamo veramente andando verso l’immobilismo o assistiamo a un fenomeno più complesso ma comunque noto e a cui è possibile dare una soluzione?
Facciamo un passo indietro.
La TAV, la linea ferroviaria ad alta velocità prevedeva la costruzione di una galleria lunga 50 km che avrebbe dovuto unire Venaus, in provincia di Torino, con Saint Jeanne de Maurienne, in Francia. Il progetto venne deliberato e imposto senza alcun dialogo preventivo con la comunità locale. Gli abitanti della valle sospettavano che il sottosuolo di quella zona fosse ricco di amianto e uranio e si opposero al progetto denunciando la possibilità che con gli scavi tali elementi si liberassero nell’ambiente circostante, rendendolo invivibile. Gli studi geologici confermarono le supposizioni. Quello che ne seguì fu un durissimo scontro che raggiunse il suo apice durante la notte del 6 dicembre 2005 quando la polizia sgomberò con la forza gli insediamenti di protesta degli abitanti della Val di Susa. A quasi sei anni di distanza il progetto è immobilizzato e, probabilmente, non vedrà mai la luce.
Lo stesso destino accomuna il centro per il deposito delle scori radioattive di alta e media durata originariamente previsto a Scanzano Jonico, un piccolo comune della provincia di Matera i cui abitanti nel 2003 si opposero duramente alla designazione, anche in questo caso imposta. Analogamente alla Val di Susa, gli scontri e le tensioni sociali impedirono di fatto la realizzazione del progetto e il governo poté come unica mossa cancellare il nome del paese lucano dalla lista dei possibili siti destinati ad accogliere i rifiuti radioattivi.
Che cosa è andato storto?
Il modello di comunicazione del rischio che si è utilizzato in questi casi è chiamato D.A.D (Decido – Agisco – Difendo) e prevede il coinvolgimento delle comunità locali soltanto in una seconda fase, una volta che il processo decisionale si è concluso. “Non si possono avvisare le rane quando si sta per drenare lo stagno”. Così sintetizzava Remy Carle, amministratore delegato di Electricitè de France, all’alba della costruzione della prima centrale nucleare francese, in riferimento al (non) ruolo che avrebbero dovuto giocare le comunità locali.
Il questo schema il rifiuto del progetto viene stigmatizzato con un acronimo coniato per la prima volta nel 1976: Nimby, ovvero Not In My Back Yard, non nel mio giardino. La parola viene utilizzata per indicare quel rifiuto aprioristico alla costruzione di qualsiasi impianto o installazione all’interno del proprio territorio, indicando quindi come tale rifiuto abbia una sorta di matrice irrazionale ed emotiva.
Il presupposto da cui nasce questo modello comunicativo è chiamato di deficit perché ha come unico obiettivo il trasferimento di nozioni da parte di un expertise tecnicamente qualificata verso un pubblico ignorante, inculcando informazioni e dati di puro stampo scientifico, con la speranza che una maggiore alfabetizzazione possa portare un ampio consenso e una certa benevolenza verso l’attuazione di progetti riguardanti la costruzione di nuovi impianti industriali.
Diversi studi hanno analizzato e dimostrato come non solo un aumento dell’alfabetizzazione scientifica non sia in alcun modo direttamente proporzionale a un aumento del consenso ma che
i singoli cittadini e i gruppi che li rappresentano hanno una propria posizione, in quanto giudicano e considerano l’argomento in questione inserendolo in un contesto relativo ai propri interessi. Non si tratta dell’emotività del momento ma di un’analisi che misura il rischio e il beneficio che una data tecnologia può portare nella vita quotidiana di ciascuno.
Ragionando in questo modo si può capire perché sia considerato accettabile un rischio come quello del campo elettromagnetico generato dal cellulare, sul quale non esistono studi certi sugli eventuali danni per la salute. Il beneficio che percepiamo, quello di poter comunicare e interagire con altre persone in qualsiasi momento, ci fa però propendere per accettare tale rischio e quindi utilizzare il cellulare.
Ora, se è ben noto il rischio delle scorie nucleari, perché una comunità locale dovrebbe accettare di ospitarle nel proprio territorio? Quale è il beneficio?
Sempre ragionando allo stesso modo la letteratura dimostra che la sindrome Nimby di per sé non esiste, ma che si tratta di una risposta da parte della comunità locale all’esclusione dal processo decisionale e, nello stesso tempo, una richiesta di entrare a far parte della governance del rischio. Perché è proprio nella valutazione del rischio che spesso nascono gli scontri e i conflitti sociali. La negazione del rischio, insito e imprescindibile in qualunque tecnologia, porta inevitabilmente a una perdita di fiducia da parte dei cittadini nei confronti delle istituzioni.
Occorre poi precisare la differenza fra rischio e probabilità di un evento: il rischio è in funzione del possibile danno che un incidente può creare e dunque, nel caso del nucleare, se è vero che la probabilità di un incidente è molto bassa è anche innegabile che qualora esso dovesse avvenire il danno sarebbe enorme.
Facciamo un esempio. La probabilità che un terrorista con un coltellino eviti i controlli di sicurezza e dirotti un aereo facendolo schiantare su un grattacielo è molto piccola. Il rischio, al contrario, è molto elevato e considera la perdita di vite umane che è un dato difficilmente misurabile.
L’accettazione di un rischio nasce non soltanto dalla conoscenza ma dai benefici che comporta: per questo motivo non sono generalmente sufficienti motivazioni quali l’interesse nazionale per imporre a una comunità impianti e infrastrutture potenzialmente dannosi.
La trasparenza sul rischio, il dialogo, la partecipazione pubblica e l’inclusione della comunità locale a monte del processo decisionale sono dunque gli elementi sui quali si dovrebbe fondare la comunicazione fra le istituzioni e tutti i soggetti direttamente interessati nel progetto. Come ha più volte affermato il sociologo Ulrich Beck, la nostra è una società del rischio, che deve quotidianamente valutare e accettare i rischi che si presentano sulla base del rapporto fra gli stessi rischi e i benefici che possono derivare dalla loro accettazione. Il tutto in un contesto democratico, analizzando la questione non solo in chiave scientifica ma anche sociale, economica e politica, tenendo ben in considerazione le competenze trasversali portate da tutti i cittadini. Alla base di tutto, sempre citando il sociologo polacco, non c’è una sfida fra le varie tecnologie ma un confronto fra diversi modi di vedere il mondo: il tutto parte sempre dalla questione sul come vogliamo vivere.
Gianluca Carta e Martina Manieli

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