Non ho mai creduto a indovini e veggenti che si professano in grado di prevedere il futuro. In ambito economico, poi, non solo ciò non è possibile ma in taluni casi diventa persino difficile interpretare il presente. L’incertezza e l’instabilità non sono buone alleate del progresso di una nazione e, purtroppo, lo constatiamo ogni giorni sulla nostra pelle. Viviamo, infatti, in un paese dove la mancanza di fiducia verso tutto e tutti si scontra paurosamente con un’impellente necessità di cambiamento.
Affidarsi alla sfera di cristallo sperando in primis che la finanza smetta di divertirsi con il suo gioco preferito che si chiama “speculazione” è perlomeno azzardato e allora che fare? La risposta è semplice, dobbiamo prepararci un terreno più fertile dove far crescere le nostre idee o, in altre parole, costruire il futuro.
Ma non da soli. Che piccolo non è più bello è stato ripetuto, giustamente, all’inverosimile sebbene occorra fare una constatazione. La dimensione aziendale in quanto tale non è sinonimo di “grandezza” sui mercati se dietro non ci sono dei seri progetti imprenditoriali. Le aziende italiane sono di medie, piccole e piccolissime dimensioni anche se spesso rappresentano delle eccellenze.
È proprio da qui che bisogna ripartire. Le eccellenze nascono dalla genialità dei nostri imprenditori ai quali si chiede ora uno sforzo ulteriore probabilmente più pesante rispetto a tutti quelli fatti finora ancora perché entra in gioco il cambiamento culturale.
Come sostiene Enzo Rullani, docente di Economia della Conoscenza e di Strategie di impresa presso la Venice International University di Venezia: “Gli imprenditori devono convertire il loro ruolo da produttori di oggetti o di macchine trasferibili a produttori di idee, soluzioni e competenze”.
Questo significa realizzare prodotti più complessi che a monte richiedono una co-innovazione. Poiché la peculiarità dei costruttori italiani è la specializzazione su un singolo componente per realizzare un prodotto complesso devono entrare a far parte di “reti”con altre aziende in grado di portare conoscenze complementari. Il grande salto culturale sta proprio qua e con esso emerge una serie di problemi collaterali quali l’internazionalizzazione, il cambio generazionale in azienda e la formazione delle giovani leve.

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