Abbiamo (forse) messo al sicuro il bambino da malattie e infezioni, ma il bambino non cresce. E allora tutti, dai massimi rappresentanti del Governo in carica ai suoi più accaniti detrattori, si preoccupano della crescita, si interrogano sulla crescita, indicano nella crescita il vero obiettivo per far uscire il Paese dalla morsa della crisi.
Nel tentativo di portare il nostro modesto contributo al dibattito, crediamo sia utile fare innanzitutto riferimento ad alcuni dati, per molti versi illuminanti.
Nel quinquennio che va dal 1999 al 2004 il sistema industriale italiano ha subìto i colpi pesantissimi sferrati dall’irruzione della concorrenza cinese e indiana sui mercati mondiali: l’attivo commerciale con l’estero per i manufatti è cresciuto in quel quinquennio del 5 per cento, contro il 96 per cento della Germania e lo stratosferico 148 per cento della Cina. Ne ha fatto le spese soprattutto il made in Italy, mentre la locomotiva tedesca continuava a correre, trainata soprattutto dai settori automobilistico, chimico ed elettromeccanico.Effetto di scelte industriali sbagliate – si dirà: come potevamo illuderci di sostenere il nostro sistema produttivo a suon di abbigliamento, oggettistica e prodotti alimentari, dopo aver abbandonato i settori trainanti dell’industria manifatturiera che ci avevano visto protagonisti mondiali dal miracolo economico del secondo dopoguerra in avanti? Uno studioso attento e profondo del nostro sistema paese come il sociologo Luciano Gallino aveva recitato il suo de profundis già nel 2003, con un piccolo ma denso saggio dal titolo “La scomparsa dell’Italia Industriale”: abbiamo perso l’industria aeronautica, quella informatica, quella chimica, ci resta solo la Fiat…se resta.
Tutto esatto. Ma attenzione: i dati successivi ci mostrano un’inversione di tendenza. Tra il 2004 e il 2008 l’attivo commerciale italiano con l’estero per i manufatti è cresciuto del 35%, contro il 28% della Germania. Cosa è successo?
E successo che da un lato molte imprese manifatturiere italiane si sono specializzate nei settori della meccanica di precisione, dei sistemi di automazione e dei mezzi di trasporto. E qui, per inciso, ed evidentemente, ha giocato un ruolo fondamentale l’innovazione di processo e di prodotto. Dall’altro, i tradizionali settori dell’alimentare, della moda, e dell’arredo-casa si sono riposizionati verso i segmenti di mercato a più alto valore aggiunto, il cosiddetto ”alto di gamma”, realizzando nel 2008 un exploit di assoluto valore: 113 miliardi di Euro di surplus commerciale, ben 20 miliardi in più rispetto alla potente industria tedesca dell’auto. Altro che declino del made in Italy.
Tutto bene allora? Mica tanto. Esaminiamo altri dati: nel 2009 l’export italiano verso i paesi emergenti, quelli a crescita vertiginosa, come Cina, India e Brasile, ha rappresentato appena il 7,3% del volume delle esportazioni italiane, e appena il 9,4% di quelle tedesche, il 6,8 di quelle francesi, il 5,8 di quelle inglesi. Siamo in “buona” compagnia, almeno.
Ora, se consideriamo che la grande massa dell’export italiano si rivolge verso i paesi del cosiddetto primo mondo, quello avanzato, quello pieno di debiti, che cresce a fatica, che compra molto meno di dieci-quindici anni fa e soprattutto compra molto meno dall’estero, ci rendiamo facilmente conto che il vero problema per la crescita del nostro sistema produttivo è la ripresa, il sostegno, lo sviluppo della domanda interna. E infatti la domanda interna, secondo gli indici Eurostat, è cresciuta dal 2000 al 2010 del solo 4,5%, e con una curva pericolosamente calante.
A questo punto la ricetta per il sostegno della domanda interna si fa chiaramente complessa: tira in ballo le politiche fiscali, la lotta all’evasione, la riforma pensionistica, il mercato del lavoro. Temi troppo complessi per essere analizzati compiutamente in questa sede.
Fermiamoci allora alle famose “politiche industriali”, un termine ingiustamente demonizzato perché da più parti identificato con il concetto, piuttosto rozzo, dell’”intervento diretto dello Stato nell’economia”. Concetto che evidentemente rifiutiamo in toto, per ovvie ragioni.
Le politiche industriali correttamente intese sono invece un sistema di azioni concrete e positive in materia di sviluppo economico e sociale: quello che a nostro avviso deve essere messo in atto da parte della politica, dei “decisori”, per innescare la tanto agognata crescita.
Quali politiche? Tentiamone un sia pur sommario disegno.
Innanzitutto un sistema di regole. Regole che garantiscano effettivamente la piena concorrenza, le pari opportunità, le stesse condizioni “di partenza” per tutti gli operatori economici (poi, è chiaro, arriva primo chi corre più veloce…): pensiamo solo ai grandi temi delle infrastrutture, delle reti ICT, delle frequenze.
Poi le azioni di ottimizzazione dell’attrattività territoriale. È chiaro che le attività economiche si posizionano e si sviluppano dove il territorio presenta le maggiori convenienze, sotto il profilo delle reti, delle infrastrutture, della logistica e della mobilità, dei servizi pubblici e della pubblica amministrazione, della qualità ambientale e della vita, della sicurezza e dell’ordine pubblico. Questo è esattamente il contrario dello Stato che si sostituisce all’impresa, che “fa l’imprenditore”, è lo Stato che crea le condizioni perché l’impresa si sviluppi.
E ancora, quello che qualcuno nel mondo anglosassone ha definito strategic procurement, un modo innovativo di concepire la spesa pubblica per lo sviluppo. Tradizionalmente, quando si parla di spesa pubblica per il rilancio dell’economia, si tirano in ballo le “grandi opere”, con il recente corollario del cosiddetto “project financing”: il privato che finanzia opere di interesse pubblico per poi goderne i frutti in termini di gestione delle tariffe. Proviamo a vederla diversamente, a rovesciare la logica. Proviamo a immaginare lo Stato che commissiona al privato soluzioni a un problema, e che conseguentemente ordina e “compra” i relativi prodotti. È quello che hanno fatto gli Stati Uniti nei settori dell’aerospaziale e della difesa, finanziando le relative industrie e acquistandone i prodotti commissionati, consentendo così alle industrie l’accumulazione dei profitti necessari a finanziare altri prodotti da collocare sui mercati mondiali, privati e pubblici, a costi competitivi. È quello che hanno fatto i governi francesi, investendo nei trasporti ferroviari, e che a ben vedere si era cominciato a fare persino nel nostro Paese, con il famoso “Pendolino”, la mamma dell’alta velocità. In Italia, lo Stato potrebbe intraprendere politiche di strategic procurement ad esempio nel settore dell’energia (gli impianti fotovoltaici), della difesa ambientale, dei beni culturali, e ancora dei sistemi di trasporto.
E infine, per venire al tema a noi più caro, la ricerca e l’innovazione tecnologica: è evidente che proprio il procurement strategico costituisce un formidabile volano per lo sviluppo della ricerca applicata e dell’innovazione tecnologica, di processo ma soprattutto di prodotto. Anche qui si tratta di invertire la logica del finanziamento a pioggia – comunque scarso – su ricerca e innovazione, indirizzando le risorse alla ricerca mirata esclusivamente ai progetti di sviluppo individuati come strategici per la crescita dell’intero sistema.
A questo punto, una volta preso di mira il target, “tutto si tiene”: progetti mirati strategicamente, fondi pubblici investiti sui progetti e sui prodotti mirati, ricerca e innovazione mirata, formazione professionale continua mirata. Tutto verso uno stesso obiettivo. A condizione che si abbia la capacità, la forza, la voglia di individuare e perseguire l’obiettivo. Una sfida non da poco per quella cosa che chiamiamo “la politica”. Ma noi le sfide le amiamo…
Giorgio Tamaro
Direttore Fapi
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