Riflessioni a cura del Previndapi su come gettare le basi per un futuro meno incerto.
A dieci anni dalla sua ultima riforma la Previdenza Complementare continua a non decollare.
Serve un disegno più armonico utile a chiarire il significato vero di “Previdenza Complementare”, a varare norme più consone per favorire il vero scopo dell’istituto e a incentivare l’adesione in maniera più massiccia.
I fondi pensione non sono strumenti finanziari; bensì hanno la finalità di servire per la previdenza e bisogna abbattere tutti gli steccati normativi che impediscono la crescita degli iscritti in questo periodo di crisi perdurante.
Il Previndapi è il Fondo Pensione per Dirigenti e Quadri Superiori della Piccola e Media Industria il cui rapporto di lavoro è regolato in base agli accordi sindacali stipulati tra la Confapi (Confederazione Italiana della Piccola e Media Industria) e la Federmanager (Federazione Nazionale Dirigenti Aziende Industriali), costituito fin dal 1990 allo scopo di fornire prestazioni di natura previdenziale aggiuntive ai trattamenti pensionistici di legge, nell’interesse degli aventi diritto e senza alcun fine di lucro.
Attualmente sono 4.231 gli aderenti che hanno scelto di consolidare il proprio futuro con Previndapi.
Le riserve matematiche ammontano circa a 300.000.000€.
Il rendimento medio garantito si avvicina al 4%.
I vari interventi normativi di questi ultimi anni sulla pensione pubblica sono stati devastanti (si pensi alla delicata questione degli “esodati”): è infatti indubbio che nel prossimo futuro lo spostamento dell’età pensionabile sia per la pensione di vecchiaia (oggi a 65 anni e 7 mesi per le lavoratrici dipendenti e 66 anni e 7 mesi per i lavoratori, ma destinata ad arrivare a 69 anni e 9 mesi per tutti nel 2050) che per quella anticipata con i requisiti contributivi (ad oggi pari a 41 anni e 10 mesi di versamenti per le lavoratrici e 42 anni e 10 mesi per i lavoratori, ma destinata a crescere fino a 45 anni per le lavoratrici e 46 anni per i lavoratori nel 2050), l’allungamento della speranza di vita, il passaggio al metodo contributivo per il calcolo della pensione, avranno pesanti ripercussioni sulle condizioni di vita della maggior parte dei lavoratori italiani.
Il problema non interessa solo l’Italia ma coinvolge tutti i paesi europei, tanto che la Commissione Europea pochi anni fa aveva presentato il Libro Bianco sulle pensioni (WHITE PAPER – An Agenda for Adequate, Safe and Sustainable Pensions) nel quale si esaminava il modo in cui l’UE e gli Stati membri avrebbero potuto intervenire per affrontare le principali sfide cui sarebbero stati chiamati i sistemi pensionistici nazionali, proponendo una serie di iniziative volte a creare condizioni idonee a consentire un migliore equilibrio tra il reddito disponibile durante la vita lavorativa e la pensione.
In questo contesto, la Previdenza Complementare in Italia riveste una funzione “sociale” ancor più rilevante rispetto al passato: infatti è evidente che la pensione pubblica (Assicurazione Generale Obbligatoria – AGO) non sarà più in grado di sostenere adeguatamente la vecchiaia dei lavoratori, una volta che essi andranno in pensione (si stima che per un lavoratore dipendete medio il tasso di sostituzione, ovvero l’incidenza della pensione rispetto all’ultima retribuzione, con il sistema contributivo sarà circa il 60% rispetto all’80% del sistema retributivo).
È quindi fondamentale prepararsi a quel momento, costruendosi delle rendite aggiuntive che possano affiancarsi alla pensione pubblica e fornire un aiuto e un sostegno al bisogno economico dei singoli lavoratori (e delle loro famiglie).
Sembrerà strano, ma ancora troppi lavoratori (inclusi molti dirigenti e quadri) non hanno aderito al cosiddetto “secondo pilastro pensionistico”, regolamentato dal D.Lgs 252/05, rappresentato sia dai Fondi Pensione Negoziali Preesistenti (FPP quali il Previndapi), che dai Fondi Aperti (FPA) fino ai Piani Individuali Pensionistici (PIP).
Purtroppo si sentono ancora tutti i giorni discussioni sul fatto che la Previdenza Complementare sia lo strumento più adatto a incrementare la pensione pubblica, se debba o possa esserci un’integrazione più stretta tra l’INPS e i Fondi Pensione, se mantenere il TFR in azienda possa consentire risultati migliori rispetto al versamento nei Fondi, se i Fondi siano efficienti nel gestire le risorse finanziarie ricevute.
Ed intanto il tempo trascorre e soprattutto i giovani (operanti in qualsiasi categoria professionale e settore economico) buttano via risorse preziose per il proprio futuro, soprattutto perdendo il contributo aggiuntivo che le aziende sarebbero disposte a versare, come previsto dai vari CCNL se il lavoratore optasse per l’iscrizione alla Previdenza Complementare, attraverso i Fondi Pensione Preesistenti (FPP) o Negoziali (FPN) di cui sono parti istitutive, versando a loro volta un contributo pari a quello aziendale, oltre al suo TFR maturando (si tratterebbe in altri termini di una sorta di risparmio forzato del lavoratore).
Spesso il lavoratore si affaccia alla previdenza con scarsa conoscenza della materia e con preconcetti errati.
UN ESEMPIO PRATICO
Analizziamo i benefici che scaturiscono aderendo ad un Fondo Pensione, prendendo ad esempio il dipendente Bianchi, nominato dirigente dopo 9 anni dall’inizio dell’attività lavorativa (ad esempio nel 2007 anno in cui la legge ha introdotto l’obbligo della scelta di destinazione del TFR) e raggiunga la data di pensionamento con uno stipendio medio di € 80.000 annui (come valore medio in 35 anni di dirigenza).
- Si stima che la partecipazione per l’intera vita lavorativa (oggi prevista in oltre 42 anni, ma destinata a crescere nel tempo) ad un Fondo Pensione Integrativo possa contribuire ad integrare la pensione pubblica per un ammontare compreso tra il 10-15% (in caso di una contribuzione dell’1% della RAL), e addirittura fino ad oltre il 30% (con contributi annui pari al 4% della RAL, come nel caso dei Dirigenti) oltre ovviamente al valore del TFR.
Per una categoria come quella dei Dirigenti, per la quale si stima in futuro una pensione mensile di gran lunga inferiore a quella della propria ultima retribuzione, sono integrazioni di non poco conto.
Inoltre vale la pena di riflettere sul fatto che posticipare di 5 anni dall’inizio della vita lavorativa l’iscrizione ad un fondo pensione complementare significa rinunziare al 15% del montante lordo ottenibile al termine della carriera lavorativa. Farlo dopo vent’anni significa perderne oltre il 50%.
- I Fondi complementari riconoscono anticipazioni del 75% (5% in più rispetto a quanto previsto per il TFR e senza limiti percentuali di disponibilità da parte dell’azienda), di cui un 30% a semplice richiesta dell’aderente senza necessità di motivazioni.
- Nonostante optare per i Fondi pensione diventa una scelta irreversibile, tuttavia in caso di cambio di contratto o di licenziamento è previsto che il lavoratore possa riscattare tutta la propria posizione.
- Il lavoratore può investire quanto ricevuto in busta paga, al netto delle imposte. Nei Fondi viene invece versato un ammontare lordo (che nel futuro sarà per di più tassato ad aliquota agevolata) comprensivo anche del contributo aggiuntivo aziendale. Inoltre occorre anche evidenziare che la comparazione dei rendimenti TFR/Fondi è sempre oggetto di analisi sui giornali sulla base di valori percentuali assoluti (chissà perché solo da poco incomincia a intuirsi questo aspetto), senza tener conto del contributo aggiuntivo del datore di lavoro.
La quota aggiuntiva che versa l’azienda rappresenta infatti un rendimento figurativo variabile tra il 10% e oltre il 25%, in funzione del contributo aziendale, che come detto varia tra l’1% e il 4% della RAL annuale. Tale rendimento si crea subito, nel momento stesso in cui si versa la propria contribuzione personale (come già detto pari, come minimo, a quella versata dall’azienda) e il TFR: quale altra forma di investimento rende altrettanto?
Per il nostro dirigente Bianchi, il contributo versato dall’ azienda (peraltro più dei € 3.200 derivanti del calcolo, in quanto per Previndapi è previsto a carico dell’azienda un minimo di € 4.800 all’anno) sta a significare oltre €100.000 versati durante la vita lavorativa.
Occorre poi evidenziare che la norma fiscale prevede una tassazione agevolata. Si tratta della posticipazione della tassazione dei contributi versati dal lavoratore, della deducibilità annua in dichiarazione dei redditi dei contributi versati (fino a € 5.164), della minor tassazione dei rendimenti finanziari, e soprattutto il fatto che il montante finale che verrà erogato al momento del pensionamento (composto dai contributi versati dall’azienda e dal lavoratore e dal suo TFR, oltre che dai rendimenti finanziari realizzati), sarà tassato, dopo 35 anni di permanenza nel fondo, al 9% anziché all’aliquota marginale ordinaria (che per un dirigente si presume normalmente ben superiore al 30%).
Pertanto il lavoratore Bianchi avrà un minor esborso di imposte, quando andrà in pensione nel 2042, di circa € 50.000 (senza considerare il risparmio realizzato durante il periodo lavorativo sulla tassazione della parte di stipendio utilizzato per versare contributi e la deducibilità degli stessi, stimabile in altri € 70.000 circa).
Se il dirigente Bianchi di cui sopra, scegliesse forme pensionistiche diverse (FPA, PIP o altre) dal fondo di categoria (FPN o FPP), si tratterebbe di cifre intorno ai € 70.000.
E PER LE AZIENDE…
Se per le aziende iscrivere i propri dipendenti alla Previdenza Complementare comporta da una parte alcuni oneri aggiuntivi, dall’altra garantisce però cospicui vantaggi fiscali.
Infatti, al di là del fatto che generare tranquillità sul futuro del lavoratore significa metterlo in condizioni di essere più sereno e produttivo nello svolgere il lavoro quotidiano, esistono per il datoe di lavoro dei ritorni diretti. In particolare:
- a) Possibilità di accedere alle misure compensative e agli sgravi fiscali previsti dalla normativa.
Il D.Lgs. 252/05 ha infatti previsto tre livelli di misure compensative per le Aziende i cui dipendenti destinano il TFR a previdenza complementare:
- Deducibilità dal reddito di impresa di una parte del TFR che non resta in azienda perché devoluto al fondo.
Il 4% del TFR annuo destinato a previdenza complementare può essere utilizzato per ridurre l’imponibile fiscale in sede di dichiarazione dei redditi. La misura della deducibilità è elevata al 6% per le aziende con meno di 50 dipendenti.
- Riduzione dei c.d. oneri impropri
Riduzione dei contributi sociali previsti per prestazioni temporanee (assegni familiari, maternità e disoccupazione) in funzione del TFR maturando conferito a previdenza complementare. Tale sgravio è cresciuto negli anni, passando dallo 0,21% della Retribuzione Annua Lorda del 2009 allo 0,28% dal 2014 in avanti.
- Eliminazione del contributo al Fondo di garanzia del Tfr presso Inps
Le imprese sono esonerate dal versamento del contributo al fondo di garanzia del TFR (pari allo 0,20% della Retribuzione Annua Lorda) proporzionalmente al TFR maturando conferito a previdenza complementare.
- b) Riduzione del costo per la Rivalutazione del TFR.
Se i dipendenti aderiscono a un fondo pensione, il TFR non sarà più un onere da gestire (salvo il pregresso) in quanto sarà il Fondo a ricevere e liquidare direttamente le richieste di anticipazione nonché al liquidazione al momento della conclusione dell’attività lavorativa. Inoltre non sarà più competenza dell’Azienda il versamento della rivalutazione obbligatoria della quota di TFR destinata al fondo pensione (1,5% + 75% dell’indice dei prezzi ISTAT) e dell’11% di tale rivalutazione a titolo di imposta sostitutiva
c) I benefici conseguibili in termini di deducibilità fiscale e minori versamenti di oneri mitigano parzialmente il maggior costo che l’azienda deve sostenere.
d) Infine porre attenzione al welfare dei dipendenti può generare un grande valore aggiunto nella relazione con gli stessi.”
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