In una fase storica dove in Italia riesce a tenere le posizioni sui mercati solo l’azienda che esporta almeno il 30% del proprio fatturato, mettere in discussione l’internazionalizzazione può sembrare una provocazione. Negli ultimi decenni nei discorsi pubblici ogni politico, esperto, economista e presidente di camera di commercio ha pronunciato con enfasi la parola “internazionalizzazione”. Con atteggiamento di benevola sufficienza, ai piccoli imprenditori italiani veniva detto che oramai nel mondo c’era la globalizzazione e che era da provinciali restare solo in Italia. Non bastava esportare, bisognava internazionalizzare! Ovvero conseguire una presenza stabile sui mercati esteri e, se possibile, produrre all’estero. E per far questo bisognava crescere, aggregarsi e … studiare le lingue. Così mentre ai piccoli imprenditori nostrani veniva un bel complesso di inferiorità perché gli si diceva che erano appunto piccoli, troppo piccoli, e perché quasi mai sapevano l’inglese, si moltiplicavano le “missioni di contatto con nuovi mercati”, specie nei paesi ex comunisti. Dopo qualche iniziale perplessità e viaggio a vuoto, alcuni imprenditori più svegli degli altri si fecero passare il complesso di inferiorità scoprendo presto che le ragazze di Romania, Albania, Bulgaria ed altri paesi dell’est erano “affettuose” anche con chi non parlava l’inglese … E lavoravano pure per molto meno delle italiane! E così per convenienza, e a volte per “amore”, furono aperti dai nostri piccoli imprenditori centinaia di stabilimenti e opifici e laboratori al di la dell’Adriatico. Poi nel tempo furono organizzate nuove missioni in Cina, India, Brasile, dove portare specialmente le imprese un poco più grandi. Va detto che le nostre “multinazionali tascabili” sono da sempre bravissime ad esportare in ogni angolo del pianeta. Innovando il prodotto, partecipando alle fiere, facendo accordi internazionali e muovendosi con aggressività, i nostri imprenditori risultano spessissimo vincenti sui mercati internazionali. Siamo da sempre grandi esportatori e, come si diceva all’inizio, in questa fase è proprio la capacità di esportare che sta salvando le imprese.
Ma oggi la riflessione da fare è: quanto potrà durare? Andare a produrre all’est ci ha consentito di ridurre i prezzi e di rimanere competitivi sui mercati … fino a che non ci han copiato quasi tutto! Non si poteva pensare che quelli a cui abbiamo portato il know how per farli lavorare per noi avrebbero fatto i terzisti per sempre. Oggi le imprese dell’est europeo sono fra i nostri più agguerriti concorrenti. Intanto i nostri imprenditori che andarono rampanti verso est sono invecchiati e alcune delle amanti di un tempo sono diventate badanti, altre mogli. Le imprese un po’ più grandi oggi fanno fare prodotti e semilavorati in India, Cina, Tailandia … E’ una cosa bella ed emozionante indossare una scarpa griffata made in Italy fatta di cuoio di bufalo indiano (la concia indiana è rinomata per essere salubre ed ecologica), con la tomaia realizzata in Thailandia e il tutto montato in Italia: ci si sente come il gesuita maceratese Matteo Ricci sulla via della seta! Un altro risultato della internazionalizzazione del quale il consumatore, ironia a parte, farebbe volentieri a meno.
Nel frattempo si aggiungono nuovi problemi ai vecchi e questi possono mettere in seria difficoltà l’esistenza stessa della globalizzazione dei mercati. Non della globalizzazione finanziaria che usa le reti Internet, ma di quella dell’economia reale che necessità di trasporti per poter esistere. Da 3 anni la produzione di petrolio è ferma a circa 87 milioni di barili al giorno e il prezzo del greggio, malgrado la crisi, continua a crescere. Se Cina ed India tornassero ai livelli di crescita pre – crisi, gli aumenti sarebbero molto più preoccupanti. E se poi si dovesse verificare una nuova guerra nel golfo Persico (e purtroppo un attacco da parte di Israele all’Iran è altamente probabile) con una temporanea chiusura dello stretto di Hormuz, i costi di trasporto andrebbero alle stelle. Chissà perché non hanno ancora fatto petroliere e navi portacontainer nucleari. Si può comprendere bene perché non ci siano camion nucleari, certamente il reattore è troppo ingombrante. Ma abbiamo portaerei, incrociatori e sottomarini nucleari che scorazzano per gli oceani da quasi 50 anni, quindi la tecnologia è ben sperimentata. Si vede che i militari sono gelosi dei loro gingilli e non condividono volentieri le loro riserve di uranio! Militari a parte, il problema è serio e potrebbe essere aggravato se o quando si deciderà di considerare la CO2 emessa dai motori per quello che in effetti è: uno dei rifiuti più pericolosi perché responsabile, almeno in parte, dei pericolosi e costosi cambiamenti climatici. E solitamente chi inquina paga. Perciò è altamente probabile che il costo dei trasporti aumenterà velocemente e di molto, mettendo in crisi la convenienza del trasporto delle merci da un posto all’altro del pianeta.
Per questa ragione i piccoli e medi imprenditori italiani, mentre sfruttano le opportunità di mercato residue ancora presenti in ogni angolo del mondo, dovrebbero cominciare a tornare a pensare al mercato nazionale ed anche locale nel senso stretto del termine. Riscoprire il fascino di lavorare e vivere con successo in Italia, lasciando ai cinesi la Cina e ai romeni la Romania. L’incidenza dei trasporti sul costo dei prodotti colpirebbe anche loro e certamente potremmo recuperare ampie quote di mercato domestico perdute negli anni. Anche il consumatore, benché impoverito, riscopre appena può il valore dell’economia di territorio. In futuro l’economia locale potrebbe essere l’unica via di salvezza disponibile per la pmi nostrana, specie per quella che si è anche preoccupata di collocarsi nell’area del lavoro utile e dei beni e servizi necessari alla vita ed al benessere degli italiani.
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