La crisi finanziaria internazionale, iniziata lo scorso 2008 a causa della rottura dei meccanismi di creazione di ricchezza basati sul debito, ha portato gli economisti a cominciare a ripensare al modello di sviluppo caratteristico del mondo moderno. Da una parte si è cominciato a mettere in discussione l’uso del Pil (Prodotto Interno Lordo) come effettivo misuratore della ricchezza di una nazione, dall’altra, in modo più radicale, si è cominciato a discutere in modo più approfondito sul concetto stesso di crescita come indicatore di progresso.
Come è noto, il Pil misura la somma delle transazioni monetarie di beni e servizi prodotti da una nazione. Attraverso il confronto del suo valore con il passare del tempo, il Pil viene usato per misurare l’aumento della ricchezza di un paese. In pratica, l’assunto è che se il Pil del mese o dell’anno successivo è pià alto del Pil del mese o dell’anno precedente, la ricchezza e, per estensione, il benessere del paese, sono aumentati. Questa è però una semplificazione, che oggi sta cominciando a mostrare i suoi limiti. Già Simon Kuznets, cui di deve il concetto del Pil, notava nel 1934 come il benessere di una nazione possa “a malapena essere arguito da una misura di reddito nazionale”.
Questa consapevolezza, in un momento in cui l’Occidente industrializzato presenta una crescita del Pil molto bassa, è di grande attualità. Giulio Tremonti, già ministro dell’Economia del Governo Berlusconi, è uno dei sostenitori dell’inadeguatezza del Pil, in quanto non fotografa adeguatamente molto aspetti importanti nell’economia nazionale, dal ruolo del volontariato al risparmio delle famiglie. A questo si aggiunge un ulteriore elemento: equiparare la crescita del Pil al progresso è la conseguenza della fiducia nulla razionalità dei mercati e deriva dalla presupposto che chi spende sa perché lo fa. Questa razionalità, anche alla luce degli eccessi che hanno portato alla crisi finanziaria del 2008, sta cominciando ad essere messa in discussione e si comincia a indagare sul “prezzo da pagare” per il progresso, sia dal punto di vista finanziario sia dal punto di vista della sostenibilità economica ed ambientale. Per esempio, lo scorso dicembre 2010, il presidente del Cnel, Antonio Marzano, e il presidente dell’Istat, Enrico Giovannini, hanno avviato la costituzione di un “Gruppo di indirizzo sulla misura del progresso della società italiana”, il cui obiettivo è quello di sviluppare un modello di calcolo a più dimensioni che integri il Pil con altri indicatori, compresi quelli relativi alle diseguaglianze (non solo di reddito) e alla sostenibilità (non solo ambientale).
Questo lavoro, così come altri analoghi in altri paesi, non critica il Pil, che resta un indicatore valido del dinamismo di un sistema. Si limita ad avvertire che prenderlo per metro del benessere può confondere le idee: “L’ eccesso di attenzione a questo dato ci ha fatto perdere di vista alcune fragilità – dice Giovannini – dando troppa attenzione ai risultati immediati”. E’ un concetto importante. Il Pil infatti misura i risultati immediati, non tiene conto della sostenibilità dello sviluppo. E’ quello che si vuole fare attraverso l’utilizzo di altri indicatori, come il Genuine Progress Indicator (Gpi), che cerca di tenere conto della sostenibilità nel calcolo dello sviluppo. Il concetto alla base del Gpi è che, nel determinare se l’attività economica di una nazione per un anno è stata migliore o peggiore, occorre tenere presente la capacità futura di ripetere, nel lungo termine, almeno lo stesso livello di attività economica.
Per questi motivi, diversamente dal Pil che considera tutte le spese come positive e che non considera tutte quelle attività che non registrano flussi monetari ma che contribuiscono ad accrescere il benessere di una società (casalinghe, volontariato), il Gpi è calcolato distinguendo tra spese positive (che aumentano il benessere) e negative (criminalità, inquinamento, incidenti stradali). Questo approccio è raffiugurato in modo magistrale dal paradosso dell’economista Zygmunt Bauman: “Se lei fa un incidente in macchina l’economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di medicinali incassano e così il suo meccanico. Se lei invece entra nel cortile del vicino e gli dà una mano a tagliare la siepe compie un gesto antipatriottico perché il Pil non cresce.”
Il confronto tra il Pil e il Gpi è analogo alla differenza che c’è tra il fatturato e l’utile di una azienda (utile = fatturato – costi). Per cui se il Pil misura solo il fatturato, il Gpi misura anche i costi che sono stati necessari per sostenerlo e determina l’utile sociale dello sviluppo. Alcuni paesi, tra cui Stati Uniti, Germania, Regno Unito, Olanda e Austria hanno ricalcolato la loro economia usando il Gpi e i dati mostrano che, mentre il Pil è sempre cresciuto negli ultimi decenni, il Gpi è aumentato solo fino ai primi anni 70, mentre dopo ha iniziato a diminuire.
Ma a essere messo sotto accusa non è solo il modello di misurazione della ricchezza, ovvero se occorra misurarla con il Pil o con altri indicatori più sofisticati. Ad essere messo in discussione è il concetto stesso di Crescita (in maiuscolo) come indicatore di sviluppo.
La crescita è stato il mantra degli utili decenni. Oggi, con 7 miliardi di abitanti nel pianeta, appare chiaro che questo imperativo non è perpetuabile all’infinito, per lo meno con le condizioni attuali. Le correnti di pensiero si possono raccogliere attorno ai concetti di No Waste Economy, teorizzata tra gli altri dall’italiano Federico Morgantini, e a quelli di Decrescita Felice i cui principali esponenti sono il francese Serge Latouche e l’italiano Maurizio Pallante.
Il concetto alla base della No Waste Economy è che occorre ridurre gli sprechi, in modo da mantenere lo stesso livello di “confort” utilizzando minori risorse per generarlo. Questo si ottiene sia attraverso comportamenti più consapevoli (non fare scorrere l’acqua quando ci si lava i denti) sia attraverso tecnologie abilitanti (i rubinetti che, attraverso un sensore, fanno scorrere l’acqua solo quando serve).
Questo è maggiormente importante oggi, con i cosiddetti paesi emergenti che si stanno avvicinando ai livelli di benessere (o per lo meno di “confort”) occidentale. Qui i numeri sono importanti. Negli anni ’60 sulla terra vivevano 2,5 miliardi di persone. Oggi, come abbiamo già ricordato, sullo stesso pianeta ne vivono 7 miliardi. E cosa questo significhi è chiaro a tutti. Prendiamo, per esempio, la Cina: nella sola Shanghai o nella sola Pechino vivono oltre 18 milioni di persone (quanto tutti gli olandesi, una volta e mezza tutti i greci), oltre 30 milioni (ovvero la metà di tutti i francesi, o la metà di tutti gli inglesi) a Chongqing. Per non parlare di India, Brasile, Indonesia e tutta l’Africa. Negli anni ’60 in Nigeria vivevano 20 milioni di persone. Oggi sono oltre 280 milioni.
E’ evidente che il modello di sviluppo attuale, che ha una componente di spreco elevatissima, non può essere esteso senza un ripensamento che permetta a tutti di migliorare il loro livello di vita, tenendo conto della sostenibilità futura di questa crescita. Le parole chiave di questa nuova economia saranno: riciclaggio, rinnovabile, risparmio, ottimizzazione, manutenzione. Si tratta di una operazione culturale importante, complessa perché va a toccare interessi consolidati, ma non impossibile. Pensiamo a cosa è successo con il fumo. Qualche anno fa fumare era considerato un simbolo di virilità e di emancipazione. Oggi è visto (probabilmente con qualche eccesso) come un vizio e una malattia. Ci si sta già muovendo in questa direzione. Le amministrazioni pubbliche promuovono (in alcuni casi impongono) sistemi di abbattimento di consumi, e in molte città è prassi comune anche tra le classi agiate andare per negozi dove si pratica “scambio” di abiti, libri, soprammobili ed altri beni durevoli, come quello nato a Milano durante le sfilate di settembre 2009.
Più radicale è l’approccio della decrescita, o decrescita felice, che mette in discussione non solo gli effetti della crescita illimitata ma anche la filosofia stessa che li ha prodotti, attraverso un nuovo modo di pensare la vita in società, che abolisce l’imperativo dello sviluppo a tutti i costi e lo sostituisce con altre priorità quali la collaborazione, la convivialità, il piacere del tempo libero, il gusto delle cose belle e di qualità al posto del consumo vistoso e a tutti i costi. Presenta, accanto a una deriva elitaria (i classici benestanti che si atteggiano a poveri, ma nel confort e nel lusso, magari acquisito), alcuni elementi di interesse, anche se non privi di qualche contraddizione. L’esempio che spesso viene riportato come caratterizzante la decrescita è quello dell’auto produzione. L’auto produzione non viene conteggiata nel Pil in quanto non c’è scambio monetario. Per cui se produco da solo le cose che consumo genero ricchezza senza che questa aumenti il Pil. A questo si aggiunge il fatto che, in molti casi anche un semplice prodotto alimentare commerciale richieda un impiego elevato di risorse per cui, se fosse calcolato con il Gpi, l’utile sarebbe negativo. In letteratura viene citato il paragone tra un vasetto di yogurt auto prodotto, al prezzo del solo latte, e uno prodotto industrialmente. Si calcolano i costi di produzione, di trasporto e di smaltimento. Secondo questi calcoli, farselo invece da soli a casa, costerebbe molto di meno. Il concetto è pertanto che, attraverso processi di auto produzione, di risparmio energetico e di relazioni di scambio non monetario (ti tengo i bambini se mi ripari la tapparella) si possa verificare un incremento della qualità della vita materiale associata ad una diminuzione del Pil. Il problema, e non è una provocazione polemica, ma un principio fondamentale dell’economia, è cosa fare se la tapparella funziona e non deve essere riparata. Ovvero, cosa mi faccio dare in cambio del mio tempo e della mia capacità di tenere i bambini? E’ per questo che si usa il denaro. perché, poi, con i soldi, ognuno fa quello che vuole e non solo quello che è disponibile nella sua comunità locale.
La decrescita è una concetto interessante, nonostante possa essere di difficile applicazione in un pianeta abitato da 7 miliardi di persone, di cui almeno 4 che vorrebbero uscire dalla povertà relativa generata dall’auto produzione per potersi comprare una bella casa fatta come si deve (e non auto prodotta), un bel frigorifero o un bel paio di scarpe nuove. L’autarchia produttiva, del localismo sono molto affascinanti nei paesi ricchi, dove i costi del benessere sono nascosti (e garantiti dalla spesa pubblica), ma tende ad eliminare il concetto di specializzazione, che è alla base dello sviluppo moderno: ovvero, una persona che è capace a fare una determinata attività (un medico, un ingegnere, un panettiere, un fabbro) si concentra su quelle attività, che spesso è faticosa e richiede molto impegno e, con i soldi che guadagna, compra quello di cui ha bisogno. Se il medico, l’ingegnere, il panettiere, il fabbro, devono farsi lo yogurt da soli, molto probabilmente non saranno in grado di affrontare la loro professione con la necessaria preparazione e concentrazione.
E’ però evidente, che, da una parte cominciando a misurare lo sviluppo dell’economia con misuratori più attenti, dall’altra avviando politiche di utilizzo più consapevole delle risorse al fine di generare ricchezza, e infine cominciando a comprendere che ci sono molti valori non “monetizzabili”, la nostra rappresentazione del mondo sta cambiando, portandoci ad avere una maggiore consapevolezza di quanto valga il nostro benessere e di quali siano i veri costi per generarlo.
Antonio Cianci
Presidenza del Consiglio dei Ministri
Agenzia per la diffusione delle tecnologie per l’innovazione

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