Il mito della crescita infinita a debito. Le speculazioni sui titoli pubblici degli Stati più indebitati avrebbero dovuto da tempo suscitare una domanda “ovvia”: come mai tutti i paesi industrializzati hanno accumulato debiti pubblici sempre più consistenti, fino a raggiungere nel 2010 valori che vanno da un minimo dell’80% del prodotto interno lordo nel Regno Unito al 225,8% in Giappone? Nell’Eurozona, nel corso del 2010 il rapporto debito/PIL è salito dal 79,3 all’85,1%. Eppure il Patto di stabilità firmato dai paesi dell’Unione Europea nel 1999 fissava al 60% la soglia massima di questo rapporto. E inoltre: perché gli Stati e le amministrazioni locali spendono sistematicamente cifre superiori ai loro introiti? Perché il sistema bancario induce le famiglie a spendere cifre superiori ai loro redditi? La risposta è intuitiva: perché la sovrapproduzione di merci ha raggiunto un livello tale che se non si acquistasse a debito, avremmo stock di merci invendute e una crisi in grado di distruggere il sistema economico e produttivo fondato sulla crescita infinita del PIL.
Proprio nel tentativo di far ripartire la crescita ed aumentare il PIL, negli ultimi anni in Italia è stata finanziata la rottamazione delle automobili, sono state concesse agevolazioni fiscali per la costruzione di nuove case, sono stati dati incentivi all’installazione di impianti a fonti rinnovabili (senza porre vincoli a favore degli autoproduttori né della tutela ambientale), è stata deliberata la costruzione di opere pubbliche tanto costose quanto inutili. Ma gli incrementi della spesa pubblica in deficit non hanno riavviato la crescita, come del resto in tutti gli altri paesi industrializzati, né hanno diminuito la percentuale dei disoccupati, che anzi è aumentata. Insomma, abbiamo speso denaro pubblico, abbiamo aumentato il debito e non abbiamo ottenuto nulla.
Per quale ragione gli stimoli forniti alla ripresa economica attraverso la spesa pubblica non hanno dato i risultati attesi? Perché nei paesi industrializzati lo sviluppo tecnologico ha determinato un eccesso progressivo della capacità produttiva. Macchinari sempre più potenti producono in tempi sempre minori quantità sempre maggiori di merci con un’incidenza sempre minore di lavoro umano per unità di prodotto. Per questo la disoccupazione aumenta invece di diminuire. Inoltre queste tecnologie sono molto costose e i macchinari non possono rimanere fermi: devono lavorare a pieno regime e tutto ciò che producono deve essere acquistato anche se non ce n’è bisogno. Quindi le tecnologie accrescono l’offerta di merci in misura superiore alla crescita della domanda e ciò comporta una diminuzione dell’occupazione, quindi una riduzione ulteriore della domanda. Perciò l’unico modo per incrementare la domanda è l’indebitamento. La crescita non è la soluzione. È il problema!
Determinanti in questa dinamica assurda sono i costi delle grandi opere pubbliche, deliberate sempre più spesso dalle amministrazioni statali centrali e periferiche non per rispondere a reali necessità, ma con la motivazione esplicita di rilanciare l’economia e creare occupazione. Le grandi opere hanno quasi sempre un impatto ambientale devastante e possono essere realizzate soltanto da grandi aziende che così suggellano la loro alleanza strategica col potere politico che delibera le opere. Un’alleanza che purtroppo accomuna tutte le varianti della destra e della sinistra. Una sorta di ossessione maniacale infarcisce di progetti faraonici e inutili i programmi elettorali di tutti i partiti a ogni livello istituzionale. Più le opere sono grandi, più investimenti richiedono, maggiore è il contributo che si ritiene erroneamente possano dare alla crescita economica. Una indecenza che si ripete ogni volta in occasione di olimpiadi estive e invernali, campionati sportivi, esposizioni universali, centenari, giubilei, conferenze internazionali. Le grandi opere che si realizzano in queste occasioni hanno costi altissimi, vengono usate per poche settimane per poi essere lasciate al degrado e all’incuria. Non ripagano nemmeno in minima parte il loro costo e lasciano le amministrazioni pubbliche piene di debiti per più generazioni. Il debito pubblico della Grecia si è impennato a causa delle spese effettuate per le Olimpiadi di Atene del 2004. Torino è la città più indebitata d’Italia grazie alle spese in deficit sostenute per le Olimpiadi invernali del 2006.
Un rilevante contributo alla crescita dei debiti pubblici viene delle spese militari. Dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno iniziato ad agire con una logica imperiale, rafforzando sistematicamente la loro presenza militare in tutto il mondo, in particolare nello scacchiere medio-orientale, per tenere sotto controllo i giacimenti di petrolio di cui il loro, e il nostro, apparato economico e produttivo ha bisogno per continuare a crescere. In modi ed in tempi diversi, tutti i paesi industrializzati si sono accodati sulla stessa linea strategica. Ma l’aumento delle spese a carico dei bilanci statali che ne è derivato, ha ridotto i vantaggi apportati dal controllo dei flussi di petrolio, delineando una situazione che presenta inquietanti analogie con quella che portò alla caduta dell’impero romano, quando le spese militari per tenere sotto controllo le province cominciarono ad essere superiori al valore delle risorse che se ne ricavavano.
Per bloccare la spirale dei debiti pubblici nei paesi industrializzati bisogna prendere immediatamente tre decisioni: sospendere le grandi opere pubbliche deliberate in deficit, ridurre drasticamente le spese militari, ridurre drasticamente i costi della politica. In realtà si tratta di intervenire su tre aspetti di uno stesso problema. Detto questo, a livello teorico si potrebbe tuttavia obbiettare che se si tagliasse in maniera così forte la domanda pubblica si ridurrebbe il debito riducendo le spese, ma si ridurrebbe anche il prodotto interno lordo e diminuirebbe il gettito fiscale, per cui il problema si riproporrebbe con l’aggravante di bloccare rilevanti settori produttivi e di far crescere ulteriormente il numero dei disoccupati. Questo accadrebbe se non fosse possibile individuare possibilità alternative di lavoro e occupazione. Invece occorre procedere attivando una decrescita selettiva.
La scelta dei settori produttivi da rilanciare. Per poter ridurre, o quanto meno a non accrescere, il debito pubblico, aumentando al contempo l’occupazione, bisogna potenziare le attività produttive nei settori in cui i costi di investimento si ammortizzano con i risparmi sui successivi costi di gestione. Per individuare questi settori occorre uscire da una concezione dell’economia come attività autoreferenziale basata sulla dinamica tra la domanda e l’offerta. Bisogna intervenire nelle fasi in cui la produzione e i consumi impattano con gli ecosistemi terrestri: nel prelievo delle risorse, nei processi produttivi che le trasformano in merci e beni, nella riduzione delle merci e dei beni in rifiuti, con l’obbiettivo di sviluppare tecnologie che riducono gli sprechi e le inefficienze.
Anziché nella costruzione di grandi opere, occorre investire:
– nella ristrutturazione energetica degli edifici esistenti (adottando subito e andando oltre la Direttiva 2010/31/CE),
– nella riduzione delle perdite nelle reti idriche e nel recupero delle acque piovane,
– nella manutenzione degli edifici pubblici,
– nel ripristino della bellezza dei paesaggi deturpati negli scorsi decenni da un’edilizia volgare e invadente,
– nel potenziamento dei trasporti pubblici locali,
– nella rinaturalizzazione dei quartieri urbani dove insistono edifici industriali o palazzi abbandonati (come si sta facendo a Detroit),
– nello sviluppo delle fonti rinnovabili in piccoli impianti per autoconsumo,
– nel recupero e riciclaggio dei materiali contenuti negli oggetti dismessi,
– nell’agricoltura tradizionale di prossimità,
– nel commercio locale, nell’accorciamento delle filiere tra i produttori e gli acquirenti.
Oltre a creare più occupazione delle grandi opere, a differenza di queste, le attività sopra elencate hanno un’utilità intrinseca e ripagano i costi d’investimento con la riduzione degli sprechi e dei consumi di materie prime, per cui non fanno crescere i debiti pubblici. Non richiedono tecnologie potenti ma evolute e/o il recupero di tecniche artigianali tradizionali. Sono attività che non possono essere svolte da aziende multinazionali che operano sui mercati mondiali, ma solo da piccole e medie imprese, artigiani specializzati e studi tecnici radicati sul territorio, in grado di conoscere tutte le realtà, anche di dimensioni limitate, che necessitano di interventi di ristrutturazione e poi di realizzarli con costi di investimento e tempi di rientro ridotti, finanziabili da istituti di credito locali.
Valorizzazione del territorio e dell’economia locale La saldatura tra i piccoli contadini, i commercianti al minuto, le piccole e medie aziende, gli artigiani e i professionisti radicati nel territorio in cui vivono, con i movimenti che si oppongono alla realizzazione delle grandi opere e alla privatizzazione dei servizi pubblici essenziali, può avvenire soltanto in un contesto di autoemarginazione dalla globalizzazione e rivalutazione delle economie locali. L’obbiettivo è di ridurre al minimo la dipendenza dalle fonti fossili e realizzare la maggiore autosufficienza produttiva in base al principio di sussidiarietà: produzione e commercializzazione negli ambiti territoriali più ristretti fin quando è possibile e conveniente, ampliando progressivamente gli ambiti territoriali di approvvigionamento di quanto non si può o non conviene produrre negli ambiti più ristretti. Questa scelta, che può essere fatta solo su base volontaria, è finalizzata a raggiungere la massima autonomia nella produzione alimentare, in quella energetica e nelle produzioni necessarie a soddisfare i bisogni fondamentali: edilizia, abbigliamento, arredamento, utensileria, attività artigianali, riparazioni e manutenzioni. L’aumento dei prezzi delle fonti fossili e la riduzione progressiva della loro disponibilità renderà sempre più conveniente l’agricoltura biologica, che dovrà comunque essere implementata dalle maggiori conoscenze scientifiche acquisite negli ultimi decenni. In un’economia globalizzata le piccole e medie aziende possono trovare spazio solo nella produzione di semilavorati e componenti per le aziende che operano sul mercato mondiale (l’indotto) o nella produzione di prodotti finiti per conto di grandi marchi che operano sul mercato mondiale (terzisti). Solo liberandosi dai vincoli della globalizzazione e producendo per il mercato locale, offrendo prodotti finali ad acquirenti del territorio in cui operano, queste aziende possono valorizzare la ricchezza della loro professionalità, della loro creatività e della loro esperienza. Pressoché tutti gli oggetti e i servizi necessari a una vita in linea con gli standard di benessere che caratterizzano i paesi industrializzati possono essere offerti dalle piccole e medie aziende distribuite sul territorio, che solo nella prospettiva devastante della globalizzazione possono essere considerate fattore di debolezza, mentre invece nel contesto di una politica economica finalizzata a consolidare l’autosufficienza delle realtà locali costituiscono uno straordinario punto di forza.
Pensare al medio periodo. Tutti i lavori di efficientamento energetico comportano una riduzione del consumo di risorse a parità di prestazioni, per cui, pur facendo crescere il prodotto interno lordo nell’anno in cui vengono eseguiti, in tutti gli anni successivi lo fanno decrescere. La coibentazione di un edificio per ridurre le dispersioni termiche fa crescere il PIL nell’anno in cui viene realizzata, ma da quell’anno in avanti lo fa decrescere attraverso la riduzione degli sprechi che consente di ottenere. Quanto maggiore è l’efficienza energetica tanto minori sono i consumi e la potenza necessaria a soddisfarli, tanto maggiore sarà la decrescita selettiva del prodotto interno lordo. In questo modo la decrescita diventa non solo la misura del benessere e del miglioramento della qualità della vita, ma anche una prospettiva in grado di creare un’occupazione qualificata, che paga i suoi costi con i risparmi economici conseguenti alla riduzione dei consumi di fonti fossili che consente di ottenere. La decrescita selettiva del prodotto interno lordo è in grado di offrire uno stimolo decisivo a superare la crisi economica e la crisi ambientale senza far crescere il debito pubblico. Ovvero di ridurre i debiti pubblici senza deprimere le attività economiche.
Conclusioni Osservando l’incalzare degli avvenimenti con occhio disincantato, non è facile essere ottimisti. Ancora non esiste un blocco di potere in grado di comprendere l’alternativa, scontrarsi con interessi enormi e quindi di superare la crisi in corso. Tutto lascia credere che questo esito sia ormai inevitabile. Che sia solo una questione di tempo. Se la prima a precipitare sarà la crisi climatica, sarà difficile trovare una via di scampo. Se invece la crisi climatica verrà ritardata dalla crisi economica o dalla crisi energetica, coloro che non si sono lasciati abbindolare dalla gigantesca opera di disinformazione e propaganda svolta dai mass media, e sono più di quanti si creda, possono evitare di rimanere sepolti dalle macerie. Per potersi salvare occorre sganciarsi dal sistema economico e produttivo, fondato sulla crescita della produzione di merci, passando dal capitalismo all’economia di mercato. Bisogna ri-organizzare reti di economia, di produzione e di socialità alternative, in grado di funzionare autonomamente e di rispondere ai bisogni fondamentali della vita con le risorse dei territori in cui insistono: come è sempre stato nella storia umana. Sulla capacità di resistere in un periodo di transizione che sarà inevitabilmente drammatico, sui patrimoni dei saperi e del saper fare accumulati e implementati nel corso delle generazioni, sulla capacità di trasformare con rispetto, efficienza e intelligenza le risorse della natura, sulla capacità di costruire rapporti improntati al rispetto reciproco, è possibile riavviare una nuova fase della storia umana. Perché storica e non congiunturale è la portata della crisi in atto. È la crisi di un modello economico che non ha più futuro, che non può essere riorganizzato e migliorato ma deve essere sostituito.
Maurizio Pallante

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