I negoziati EGA sono entrati nella seconda fase dei colloqui da parte della Commisione europea. L’obiettivo è redigere un elenco comune a partire da una vasta gamma di prodotti ecologici indicati dai singoli partecipanti, per una manifattura sostenibile.
DI LUIGI PASTORE
Il negoziato continua sull’applicazione ecologica di prodotti per la generazione di energia rinnovabile, il trattamento delle acque, il controllo dell’inquinamento atmosferico, ecc. I negoziatori vogliono inoltre garantire che l’elenco dei prodotti che potranno accedere senza dazi sia di facile applicazione da parte delle dogane e dell’industria.
In un Mondo sempre più complesso e difficile da governare per l’assenza di strumenti interpretativi e gestionali efficaci, anche le poche buone notizie rischiano di passare sotto silenzio.
Mentre sono ancora forti i clamori per l’assenza di risultati nel negoziato per il Trattato Commerciale Transatlantico, sono, invece, quasi al traguardo gli accordi che la Commissione europea sta discutendo al WTO in merito all’EGA (Environmental Goods Agreement).
La significativa novità è legata al fatto che quasi tutti i contraenti manifestano una significativa volontà di conclusione positiva che va dai singoli Stati, ai movimenti ambientalistici.
Si tratta del principale accordo sui prodotti ecologici ed ecosostenibili mai firmato e gli attori coinvolti sono oltre alla UE,gli Stati Uniti e la Cina, sono: Australia,Canada,Costarica,Taipei,Hong Kong,Giappone,Corea,Nuova Zelanda,Norvegia,Svizzera,Singapore,Israele,Turchia ed Islanda.
Dovrà essere ratificata l’abolizione, attraverso la progressiva riduzione, di tutti i dazi doganali e le barriere non tariffarie che gravano su una lista di oltre settecento articoli considerati beni ambientali o “green goods”che arrecano benefiche ricadute sull’ambiente che ci circonda.
Il volume delle risorse in gioco è molto elevato e stimabile in circa 1700 miliardi di euro entro il 2020, con tassi di crescita, pur in momenti di difficoltà quali gli attuali, di circa il 10% annuo.
Per il nostro Continente, poi, il valore stimato , in percentuale sul totale delle esportazioni europee, è di circa il 9%, con l’Italia che occupa la quinta posizione tra i Paesi esportatori.
E’ questo un singolare caso nel quale ai benefici ambientali della riduzione dell’inquinamento e della salvaguardia delle risorse non rinnovabili, si abbinano anche vantaggi economici.
Infatti la manifattura europea, già leader di questo mercato, potrebbe ulteriormente avvantaggiarsi dalla riduzione dei tassi doganali che nei Paesi Emergenti sono circa tre volte superiori a quelli statunitensi fermi all’1,5% medio dei prodotti, con il conseguente aumento dei volumi venduti che compenserebbe ampiamente l’eliminazione dei dazi all’importazione.
Ad oggi nell’elenco dei prodotti dei quali si discute all’EGA, sono inserite le seguenti categorie: organizzazione e gestione dei rifiuti, trattamento delle acque, energia pulita e rinnovabile, inquinamento aereo, acustico, strumenti di monitoraggio ambientale, bonifiche ambientali, tecnologie energeticamente efficienti ed efficaci.
E’ ovvio che si tratta di un elenco in progress, perché se è vero che un motore a combustione interna inquina, se ne realizzo uno più efficiente, inquinerà meno, quindi potrà entrare nell’elenco dei prodotti “green goods” e godere di un trattamento doganale più favorevole che ne diminuirà il prezzo e accrescerà la richiesta.
La discussione è quindi aperta e la lista andrà costantemente verificata ed aggiornata, fornendo ai produttori lo stimolo per aggiornare ed innovare i prodotti in modo sempre più ecosostenibile.
L’EGA quindi è anche un’occasione culturale per favorire una sempre più avanzata sensibilità e cultura ambientalista non conflittuale con le logiche della moderna produzione industriale che fa dell’impiego delle tecnologie lean (riduzione degli sprechi) uno dei suoi punti di forza.
Pertanto dopo il suo inserimento al tavolo di confronto della conferenza di Parigi sul clima, l’accordo finale dovrà essere ratificato dai ministri competenti nella prossima riunione del WTO di Nairobi, per diventare poi definitivamente operativo dal primo di gennaio 2017.
Si tratterà di un risultato importante che consentirà di realizzare una corrispondenza biunivoca tra esigenze ambientali ed economiche e perché sarà più conveniente lottare contro le emissioni di CO2, piuttosto che continuare ad inquinare senza limiti e con regole poco chiare.
Potremmo definirlo come un vero cambio di paradigma, destinato, nei prossimi anni, a trasformare il percorso di tutta l’attività manifatturiera, con la sostituzione di milioni di posti di lavoro.
In effetti secondo molti pareri di economisti importanti, il cambiamento climatico, non affrontato, potrebbe portare ad una recessione mondiale in grado di ridurre il PIL globale di oltre il 20%.
Mentre la battaglia per contenere la crescita delle temperature, intorno ai due gradi, porterebbe ad una crescita del Pil mondiale dell’1% annuo.
Si passerebbe da un rischio sistemico (molto probabile, prevedibile e ad alto impatto) ad un’opportunità, che grazie all’economia decarbonizzata, potrebbe portare alla creazione di circa 30 milioni di posti di lavoro aggiuntivi a livello mondiale, con ulteriore riduzione di disuguaglianze sociali e povertà.
Infine, secondo una stima di Greenpeace, se tutti i principali Paesi si dessero come obiettivo di produrre energia solo da fonti rinnovabili entro il 2050, i costi ammonterebbero a 1000 miliardi di dollari.
Spesa inferiore a quella che annualmente si affronta per ottenere la stessa quantità di energia da fonti fossili (circa 1070 miliardi di dollari) e questo senza calcolare gli ulteriori costi economici e sociali che si debbono comunque affrontare per contenere l’inquinamento da fonti non rinnovabili.
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